L’imbroglio è forse antico quanto il mondo. Ed è altrettanto antica la convinzione che il diavolo faccia le pentole, ma non i coperchi, per cui gli imbroglioni alla fine vengono scoperti e puniti. Se non in questa vita, almeno nell’altra. Una famosa leggenda ambientata in bassa
Valtellina testimonia di questa convinzione. Se vi capita di essere sorpresi dalle tenebre in
Val dei Lupi, che, per l’omonima bocchetta, pone in comunicazione l’alta
Val di Tartano con la
Valmadre, potete aspettarvi di udire suoni sinistri, come di un battere monotono e disperato di mazza contro un masso, fra i resti degli scavi di una vena di siderite (ferro) sfruttata nei secoli scorsi, fino alla fine del 1700. Questi rumori si odono solo nelle notti più cupe, quando il buio è pesto e la mezzanotte incombe con le sue segrete paure su ogni vivente. Di cosa si tratta? Per saperlo dobbiamo fare un passo indietro di qualche secolo.
Abitava, fra Cinquecento e Seicento, a
Fusine un uomo noto per la sua probità e chiamato
Rigadìn o
Rigadìi. Si vantava di non aver mai detto una bugia in vita sua e di non aver mai frodato nessuno. Oltre che per la sua probità, era noto per l’ottima conoscenza del territorio della Valmadre. Essendo sorti dissidi fra le comunità delle Fusine e di
Colorina circa l’esatta ubicazione dei confini fra i due territori sul versante occidentale della Valmadre, si decise di eleggerlo come arbitro, certi che non avrebbe fatto parzialità. Così, con una serie di sopralluoghi, indicò i punti di riferimento dei confini, perché venissero segnati con nettezza. Le sue indicazioni parvero troppo favorevoli alle rivendicazioni della comunità delle Fusine, ma, di fronte alle sue parole perentorie, “
Giuro che i miei piedi poggiano su terra della comunità delle Fusine”, nessuno osò porle in dubbio. Alla fine i confini vennero tracciati e trascritti nei documenti. Ma, prima di morire, sembra che il Rigadìn abbia sentito il bisogno di sgravarsi di un peso sulla coscienza, confessandolo a non sappiamo bene chi. Fu così che si seppe della sua astuzia fraudolenta: prima dei sopralluoghi, infatti, aveva messo all’interno delle sue scarpe una bella manciata di terra di Fusine, e così, a rigor di termini, aveva sempre detto il vero, perché i suoi piedi posavano sulla terra delle Fusine, anche se le scarpe calpestavano il territorio di Colorina. Le conseguenze di questa astuzia fraudolenta non toccarono i confini comunali, che, tracciati com’erano, non furono più modificati, ma la sorte del Rigadìn. Dopo la morte, ebbe un bel protestare che lui di bugie non ne aveva mai dette: il Signore non lo volle in Paradiso, e neppure in Purgatorio. Ma neanche il diavolo lo voleva: nella sostanza aveva sì truffato gli abitanti di Colorina, ma, a voler essere pignoli pignoli, di bugie non ne aveva dette, ed allora in quale parte dell’Inferno lo si doveva relegare? Così la sua sorte fu quella comune ad altre anime invise a Dio e al demonio: i famosi “
confinati” (“
cunfinàa”), condannati in eterno ad una pena da scontare non all’inferno, ma confinati, appunto, nei luoghi più solitari e tetri delle montagne. Ecco spiegato il battere insistente di mazza su pietra: è il Rigadìn che sconta la sua pena!
Una nota linguistica: Rigadìn o Rigadìi suona un po’ come “riga drìzz”, cioè “riga diritto”; in realtà il termine "rigadìi", nel dialetto della
Val di Tartano (come si evince dall'ottimo dizionario di Giovanni Bianchini), significa tessuto di lana a strisce rosse, grigie e nere, utilizzato per le sottante delle donne, detto anche "
gagiulìi"; è interessante notare che l'espressione metaforica "
fa rigadìi" significa comportarsi in modo incoerente e contraddittorio, dar a vedere una cosa e pensarne o farne un'altra, come frequentare la chiesa e comportarsi contro la legge di Dio, come aveva fatto, appunto, il Rigadìi.